il Piccolo, 24 aprile 2003
Bateson e Derrida: quella lontananza così vicina
La proposta non è priva di rischi e per questo ancor più affascinante: l’incontro tra due degli autori più imprevedibili e originali della scena contemporanea, Gregory Bateson e Jacques Derrida, le cui lontane appartenenze culturali non hanno mancato di produrre curiose e significative prossimità. A cominciare dagli scarti di non-appartenenza e dagli equivoci che accomunano entrambi, spesso rinchiusi in definizioni (maestro del pensiero sistemico-ecologico il primo, del decostruzionismo post-metafisico il secondo) troppo povere e anguste rispetto alla ricchezza e all’apertura dei loro pur diversissimi percorsi intellettuali. Ma soprattutto accomunati dall’esigenza di sondare nuove vie di pensiero e dal lavoro intorno ad un concetto – il doppio legame – che proprio nei suoi spazi d’impossibilità sembra custodirne l’accesso.
La prossemica paradossale che lega questi due autori dà la misura del pericolo (vedi riduzionismo) che una simile operazione comporta. Va detto subito, allora, che a questo pericolo Davide Zoletto («Il doppio legame Bateson Derrida. Verso un’etica delle cornici», Bompiani, pagg. 197, euro 17) ha saputo sottrarsi, evitando i facili cliché preconfezionati, i binari sicuri su cui viaggiare. Non all’interno di rigide cornici si muove la sua riflessione, ma su bordi mobili, al di qua e al di là dei quali continuamente si sporge, nella consapevolezza che quello che conta il più delle volte «nello sporgersi verso il fuori, non sono né il luogo da cui ci si sporge, né quello su cui ci si affaccia. Ma precisamente lo sporgersi».
Non in molti «luoghi» Bateson e Derrida avrebbero potuto incontrarsi. E non è certo un caso che il progetto abbia preso il via dal lavoro filosofico fatto all’Università di Trieste, da anni impegnata su entrambi i «fronti». Eppure questo incontro era non solo auspicabile, ma quanto mai inevitabile e necessario, anche perché, per quanto dica Derrida a tal proposito o, meglio, anche per ciò che continua a dire Derrida a tal proposito (“non ho mai letto Bateson”), già da tempo in corso. Mancava solo il coraggio di renderlo «effettivo», di far sì che non restasse puro e semplice fuori-testo. Zoletto ha trovato non solo questo coraggio, ma anche la capacità di farli incontrare, parlare, sintonizzare, tenendoli sempre – anche quando sembrano diventare un’unica voce – alla giusta distanza: così che il dentro del testo non esaurisce mai quel fuori. Un non facile esercizio di equilibrio oscillante, quasi a riflettere quella stessa modalità di pensiero che attraverso le loro voci sembra volerci indicare: una sorta di ondeggiamento paradossale tra il possibile e l’impossibile di ogni nostra esperienza e di ogni nostro pensiero. Ecco perché, egli avverte, e qui si spiega anche il titolo inconsueto, non si tratta tanto di guardare «al doppio legame in Bateson e in Derrida, quanto piuttosto al doppio legame Bateson Derrida».
Grazie a questo nuovo sguardo – secondo Zoletto – lo stesso doppio legame, confinato da troppi e per troppo tempo nei limitati spazi della psicopatologia, può rimettersi in pari con se stesso, senza per questo rinunciare alla sua intrinseca disparità. Una disparità che a questo punto non si qualifica in termini di meno, bensì di sovrappiù: non trappola, ma possibile via d’uscita dalle insostenibili strettoie del pensiero «metafisico». Ma non si può uscire se non si sa stare anche dentro, ammonisce la «voce» Bateson Derrida. Ecco il nodo della questione; ed ecco perché il doppio legame può essere quel duplice movimento dis-organizzato che appunto nel legare riesce anche a sciogliere.
Il discorso non manca di assumere una sua non trascurabile valenza etica, che si traduce principalmente in una nuova idea di serietà: una serietà che sappia, per così dire, non prendersi troppo sul serio. Non quella di Socrate per capirci, che proprio nel più impegnato sapere metafisico confluisce, semmai quella con cui il giovane Kierkegaard manda a fondo l’idealismo hegeliano. Anche se poi Kierkegaard, come si sa, torna a fare fin troppo sul serio, mentre Zoletto, insieme a Bateson e Derrida, ci invita a non smettere «seriamente» di giocare; ovvero ad una responsabilità del dentro e fuori, del saper rispettare le regole senza dimenticare che c’è sempre un irriducibile oltre rispetto ad esse. Né sintesi dialettica, né aut aut oppositivo, insomma, piuttosto una sorta di paradossale et et che scansi, e è questo il pericolo più «serio», ogni deriva qualunquista e ogni finalismo risolutivo, che non farebbe altro che capovolgere lasciando inalterati i termini della questione.
Una questione che in ultima analisi riguarda ancora una volta noi tutti, con il nostro pieno di mancanze, le nostre decisive indecidibilità, le nostre più imminenti lontananze, ma anche, come mostrano Bateson e Derrida, le nostre più distanti vicinanze; ed una possibile idea di io che sappia davvero trovare nella parola altro se stesso (senza per questo smettere di cercarsi).
Tiziano Possamai